La settimana scorsa abbiamo concluso le nostre riflessioni con un interrogativo e la necessità di fare chiarezza.
Essere flessibili ha qualche utilità?
Questa domanda partiva dalla supposizione che lo stretching equivale alla flessibilità. Non è esattamente così.
Lo stretching è un mezzo per uno scopo. Faccio stretching per aumentare la mia flessibilità.
Ma siamo veramente sicuri che…
Sì. Questa volta sì. Questa volta non arriverà nessuna mazzata dal mondo della letteratura scientifica. Per ora.
Lo stretching aumenta la flessibilità.
Anche il buon vecchio stretching statico.
Già nel 2002, una revisione comprendente 13 studi, anche se nel complesso la qualità non era molto alta, dimostrava un’efficacia sul miglioramento del ROM (range of movement), cioè quanto si muove un’articolazione, in persone senza particolari patologie.
Nel 2005, un’altra revisione ha invece indagato l’efficacia dello stretching sul ROM dei muscoli ischio-crurali, i muscoli posteriori della coscia. Anche in questo caso la qualità generale degli studi era bassa, cosa che si è tradotta in una maggiore difficoltà nell’identificare un metodo migliore degli altri, in termini di durata dell’allungamento, tecniche e posizioni. Nonostante questo, tutti gli studi hanno riportato un aumento della mobilità.
Passano gli anni, arriviamo al 2015, anno in cui viene pubblicata un’altra revisione, che cerca di nuovo di capire quale sia il metodo migliore tra stretching statico, dinamico e PNF, che sta per proprioceptive neuromuscular facilitation.
Ma che figata! Questo, dal nome, sembra agire a livello neurologico. Dai, sarà questo il più efficace!
E invece no. La revisione ha riscontrato miglioramenti della mobilità articolare significativi con tutti e tre i metodi, ma senza differenze significative tra di loro. Per completezza aggiungo che c’è un limite: gli effetti dello stretching dinamico e PNF sono stati misurati solo per 10 minuti dopo l’allungamento, limitando quindi i dati a disposizione.
L’anno dopo, un’altra revisione ha cercato di andare più a fondo sull’efficacia dello stretching degli ischiocrurali per la mobilità, stavolta indagando solo sullo stretching statico. La qualità riscontrata stavolta è stata più alta, e i risultati ancora più chiari: lo stretching statico aumenta la flessibilità dei muscoli posteriori della coscia e di conseguenza la mobilità di anca e ginocchio.
Infine, riporto una ricerca del 2018, che ha indagato quanto lo stretching portato avanti con costanza modifichi le proprietà meccaniche dei muscoli e dei tendini.
I programmi studiati hanno una durata che va dalle 3 alle 8 settimane, e i risultati suggeriscono che i cambiamenti non sono meccanici ma sono legati alla sensibilità. Riusciamo a modificare la nostra tolleranza all’allungamento.
A prescindere dal meccanismo di fondo però, è importante capire una cosa:
se vogliamo raggiungere una migliore flessibilità attraverso lo stretching, dobbiamo concentrarci sul farlo diventare un’abitudine, praticare con costanza. D’altronde è quello che facciamo quando vogliamo diventare bravi in qualcosa: ci dedichiamo tempo ed energie.
Non basta lo stretching pre e post allenamento per diventare più flessibili.
Ma, a questo punto, trovo che sia importante farci una domanda:
Perchè voglio essere più flessibile?
Per quale motivo dovrei dedicare le mie risorse con costanza per settimane, mesi, anni allo scopo di ottenere più mobilità?
Se è per ridurre dolori e possibilità di infortunio abbiamo già visto che purtroppo non ne vale la pena.
Non siete convinti?
Benissimo, ce n’è ancora: una revisione pubblicata nel 2010 e aggiornata nel 2017 ha indagato l’efficacia dello stretching sul trattamento e la prevenzione delle “contratture”.
I programmi inclusi nella ricerca, anche se tutti inferiori ai 7 mesi di durata, non hanno dimostrato un efficacia. Nè sull’aumento della mobilità, né sul dolore, né sulla qualità della vita.
C’è la convinzione di fondo, molto diffusa, che essere flessibili e mobili porti ad essere sani e senza dolore. Non è così. Molte persone ipermobili hanno dolori che persistono per anni!
Sì ok, ma io sento che ho bisogno di allungarmi quando ho male qui! (indicare parte del corpo a piacere)
Nessuno lo nega! Il punto è che non si sa in che modo agisca, ma è molto probabile che lo stretching faccia qualcosa nella modulazione del dolore, in qualcuno, per casi specifici.
Ma torniamo a noi: perché diventare più flessibili?
La cosa importante è che sia funzionale a qualcosa. Questa è una riflessione che dovremmo tenere in considerazione per ogni aspetto della nostra vita, ogni volta che dobbiamo investire quello che abbiamo.
Ecco che allora se sono un atleta, un ginnasta, un praticante di arti marziali, un artista circense, una persona che ha bisogno di aumentare la flessibilità per mantenere con più facilità una posizione in cui è costretto a lavorare, non solo è importante, ma è necessario e benefico aumentare la flessibilità.
Scusa, ma stai dicendo che io, comune mortale, che non rientro nell’élite che hai descritto sopra non posso ottenere benefici dallo stretching?
No, erano degli esempi di funzionalità. Quello che cerco di far capire è che è importante lavorare per ottenere qualcosa che sia poi sfruttabile.
Voglio stare più comodo seduto per terra?
O giocare con i miei figli senza soffrire la posizione?
Voglio curare il giardino o l’orto senza sgranchirmi ogni 2 minuti?
Non sono un professionista ma un appassionato di movimento e voglio fare la verticale o la spaccata?
Benissimo! Lavoriamo sulla flessibilità, ma cerchiamo di farlo per qualcosa, non per essere più flessibili e basta. Perché altrimenti potremmo ritrovarci con più articolarità, ma gli stessi problemi di prima.
Questo lo sa bene Antonio Gallizzo, praticante di Art Du Deplacement da dieci anni e coach da più di cinque, presso ADD Academy Firenze, laureato in scienze motorie e personal trainer.
Proprio qualche giorno fa ha riassunto quello che ho appena descritto in una frase:
“Avere più mobilità significa avere più porte aperte nel movimento.”
E le porte aperte servono certamente per far passare l’aria e la luce, ma soprattutto per passarci attraverso.
Vi consiglio caldamente di seguire il suo lavoro e le sue riflessioni, è tempo ben speso!
Ah! Ci è eravamo anche chiesti un’altra cosa alla fine dell’articolo precedente:
Ma quindi lo Yoga? Non è tutto stretching?!
Benissimo. A livello puramente muscolare lo yoga prevede degli allungamenti e delle tenute isometriche, ma equiparare lo yoga allo stretching è così riduttivo da essere irrispettoso.
A questo punto chiamo in causa Claudio Cedolin, insegnante di yoga, co-fondatore del centro Studium di Venezia e mio caro collega presso l’Accademia Teatrale Lorenzo Da Ponte. In quanto praticante di yoga dal 1993, credo sia il caso di chiedere a lui cos’hanno in comune lo yoga e lo stretching.
Claudio, rimanendo sul piano muscolo scheletrico, ci insegna che nello yoga tutte le posizioni vanno tenute per 3 minuti (dai principianti!!), e anzi, secondo gli antichi testi di riferimento andrebbero tenute per 20 minuti! Già qui ci sono delle differenze. Ma durante il mantenimento delle posizioni l’attenzione va rivolta al respiro e agli stati mentali, dando alla disciplina un impatto che va ben oltre l’allungamento muscolare.
L’intenzione con cui si pratica qualsiasi disciplina fa la differenza, e questo è l’esempio perfetto.
Lo yoga è un sistema filosofico, che comprende una pratica fisica. Non è una semplice pratica fisica.
Per questo motivo, senza il sistema nella sua interezza, le posizioni dello yoga possono dare solo il dubbio beneficio che da lo stretching.
Quindi:
- Lo stretching, effettivamente, aumenta la flessibilità;
- Se vogliamo aumentarla cerchiamo di farlo con uno scopo;
- Lo yoga è un sistema complesso che comprende l’utilizzo dello stretching, non è stretching.
Mi auguro che queste parole vi siano state d’aiuto, o che abbiano stimolato una riflessione. E, ovviamente, se non siete convinti, mi piacerebbe tanto parlarne insieme. Quindi scrivetemi!
A presto!



